Meraviglie: L'arte perduta del guglare
Sapete cosa mi piace fare? Googlare.
Mi ricordo bene la mia prima navigata su internet, a casa mia, con un cavo piatto e grigiastro a collegare il computer a un modem con le antennine. Andavo su Google.com e scrivevo i miei interessi, che all’epoca erano Lupo Alberto e Dragon Ball. Digitavo i termini di ricerca e aspettavo minuti lunghissimi per il download delle immagini. (Anche donnine nude, ok. 😤)
Google lo diamo per scontato. Io stesso, quando me ne occupo, mi riferisco nella maggior parte dei casi all’azienda (che ora si chiama Alphabet) e alle sue controllate; si tende a nominare la parola Google per indicare l’area di potere di uno dei giganti che si spartisce il web insieme a Facebook, Amazon, Microsoft, Alibaba.
Google vuol dire YouTube, Google Maps, Android; ha un po’ smesso di essere un verbo, ora che è diventato tutto quanto e preferisce essere menzionato per voce con “Ok Google”.
I risultati del tramonto del googlare si vedono, e vengo al dunque: in qualche modo Google è diventato un pessimo motore di ricerca, pieno di pubblicità e con risultati gerarchizzati alla cazzo. Bing dà spesso risultati migliori e soprattutto DuckDuckGo garantisce maggiore privacy: che è successo?
Il problema principale è il peso del motore di ricerca stesso: milioni di siti combattono per arrivare in cima ai suoi risultati, con trucchi e stratagemmi che dal lecito SEO arrivano al malandrino. Da parte sua, Google ha ampliato negli ultimi anni lo spazio dato alle sue “card”, quei boxi informativi che spesso incorporano dati da Wikipedia (curiosità: il motivo per cui le ricette di cucina arrivano al punto dopo sei paragrafi di fuffa è proprio per evitare di essere “riassunte” da Google, rendendo inutile cliccare il link).
La parte a destra.
Google è in continua trasformazione. È così che è diventato così potente e utilizzato, del resto: cambiando. Lo scorso gennaio, però, l’azienda ha introdotto dei cambiamenti nel modi in cui distingue gli annunci pubblicitari dai risultati veri propri: le novità consistono nel… non distinguerli più tanto. Adesso, quindi, i risultati “normali” e “sponsorizzati” nuotano nello stesso mare, rischiando di ingannare l’utente. Google è stata poi costretta a ritrattare ma il danno era stato fatto: ci sono iconcine “Ad” vicino alle pubblicità al posto dei riquadri giallini d’un tempo, che erano molto più chiari e diversi dal resto. Agevoliamo il grafico realizzato dal sito Search Engine Land.
A quanto pare Google ha bisogno di soldi (lmao) e quindi cerca di monetizzare il più possibile i suoi servizi. Non so se avete usato l’app di YouTube recentemente ma se siete fan delle solite tre pubblicità di Fortnite e di altri prodotti bizzarri e a volte inquietanti, vi state perdendo uno spettacolo. Agevolo diapositive dal mio dispositivo:
All'’utente martoriato dalle ad viene ricordato che un’alternativa c’è! – ed è l’Eldorado di YouTube Premium, dove per una piccola somma mensile è possibile riavere il servizio che ti è stato dato gratuitamente per un decennio.
Un’altra – ehm ehm – revenue stream – grazie – è garantita dal leggerissimo conflitto d’interessi tipico delle aziende grosse come galassie: come ha notato questo utente su Quora, dopo le ad i risultati delle ricerche il sito spesso presenta link che Google stesso usa per favorire i prodotti Google, una pratica per cui l’Unione europea ha multato l’azienda per 2,3 miliardi di dollari.
Mettiamo insieme tutte queste cose ed è evidente perché la prima pagina di risultati non è più la certezza che era fino a qualche anno fa, quando tutto ciò che era oltre pagina 2 era DARK WEB.
Le cose non miglioreranno, visto che l’affaire Covid-19 è costato al gruppo dieci miliardi di dollari e che il Dipartimento di Giustizia USA sembra voler fare qualcosa sulla posizione dominante che l’azienda ha nel mercato pubblicitario online (dove assorbe 42 centesimi per ogni dollaro speso). Aspettiamoci ricerche migliori fino al punto in cui “cercare robe su Google scrivendo” sarà considerata un’abitudine bizzarra.
Quando diciamo che il vecchio www ormai non c’è più diciamo anche questo: pure le parti sopravvissute sono mutate per adattarsi a un’esperienza online che sa meno di ricerca personale; il rabbit hole esiste ed è forte più che mai ma è governato dagli algoritmi e non restituisce quel senso (magari illusorio) di libertà.
Scusate, è un’edizione un po’ triste. Non ha aiutato il fatto di essere tornato sul sito di Lupo Alberto e averlo trovato chiuso.
Ed è tutto, ciao.